L’attuale situazione di caos
finanziario greco impone qualche riflessione. Non entro nel merito delle scelte
dell’esecutivo ellenico che ha ereditato una situazione finanziaria ampiamente
compromessa e, eletto sulla base di un programma che portasse il paese fuori
dall’austerity, si vede probabilmente costretto ad un duro confronto con le
autorità monetarie per evitare di tradire l’impegno assunto nei confronti degli
elettori. Mi soffermo, invece, sul problema del debito pubblico e dei conti
della pubblica amministrazione in senso più allargato. Alla fine, infatti, il
problema della Grecia mette in risalto alcuni aspetti cruciali:
L’adesione all’euro, in presenza
di un alto debito pubblico, ma soprattutto, nel momento in cui non sussista una
vera condizione di equilibrio dei conti pubblici, meglio ancora, di attivo di
bilancio, è possibile solo a condizione che i creditori siano disposti a
finanziare a tempo indeterminato tale disavanzo. Questa constatazione, tanto
scomoda quanto ovvia, dovrebbe essere un forte ammonimento per tutti quei
paesi, Italia purtroppo inclusa, per la quale è imperativo procedere ad una
drastica riduzione degli sprechi e dell’evasione, unica seria alternativa a
delle politiche di riduzione del welfare o di ulteriore inasprimento della
pressione fiscale. Detto in parole povere, non c’è più spazio né risorse da
dedicare al mantenimento di privilegi di casta e per sopportare le inefficienze
e le tante ruberie. Solo regole giuste, una fiscalità equa e trasparente, e conti
pubblici in equilibrio, costituiscono il prerequisito che permette di sottrarsi
ai possibili “aut aut” dei creditori e di riappropriarsi della forza politica per
poter intraprendere in piena autonomia le scelte di indirizzo economico e
fiscale. Una buona applicazione pratica di questi principi potrebbe riassumersi
nel semplice enunciato che: “non esistono diritti acquisiti” se essi sono
naturati a seguito di privilegi o modelli economici non sostenibili e che vanno
a detrimento dell’identico diritto di chi è tenuto a farvi fronte a detrimento
del proprio trattamento. In questi casi, la messa in discussione di tali
diritti e la ricalibratura dei trattamenti è tanto etica quanto obbligatoria.
Nei giorni scorsi si è tanto
parlato delle differenze riguardanti i regimi pensionistici e previdenziali che
caratterizzano i diversi ordinamenti europei. Facendo riferimento al caso della
Grecia, è possibile, ad esempio, approfondire tali tematica in:- http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-05-23/pensioni-greche-resistono-deroghe-e-privilegi-081144.shtml?uuid=AB7YfQlD.
- http://www.lastampa.it/2015/06/29/economia/il-buco-nero-delle-pensioni-di-atene-F3ohwysBe1P59XdOqjuToL/pagina.html.
- http://www.huffingtonpost.it/2015/07/02/grecia-fornero-non-taglierei-le-pensioni_n_7710868.html?1435819187&utm_hp_ref=italy
Al di là che molti di noi vorremmo
poterci permettere di andare in pensione rapidamente con un trattamento
economico adeguato e desidererebbero un sistema di ammortizzatori sociali che consenta
a tutti di vivere decorosamente, risulta sempre più chiaro che per riuscire a
conseguire tale risultato è necessario che, finanziariamente, la società sia
strutturata in modo da poterselo permettere. In caso contrario si finisce per
indugiare intorno a semplici illusioni e bugie, le quali, guarda caso, sono il
pane quotidiano della classe politica che, ahimè, abbiamo votato negli ultimi
trent’anni (e forse più!).
L’aspetto più importante però, in
fondo non ha nulla a che fare con le reali o presunte debolezze morali dei
paesi mediterranei dell’area euro. Da un
punto di vista più pragmatico, infatti, risulta ormai evidente il limite di un’unione
che vorrebbe reggersi solo attraverso l’adozione della moneta unica e non anche
sull’armonizzazione di tutti gli altri aspetti economici, sociali e fiscali che
caratterizzano una società evoluta. In pratica, alla lunga, è impossibile, per
i politici dei paesi cosiddetti “virtuosi”, che si trovano nella posizione di creditori,
giustificare di fronte ai propri elettori il finanziamento a tempo indeterminato
delle situazioni di disequilibrio di quei partner che, a torto o ragione,
vengono considerati meno rispettosi. Servono dunque, parametri oggettivi minimi
che fissino delle regole uniformi per tutti. Per raggiungere tale obiettivo non
vedo altra soluzione che rinunciare a un po’ di sovranità nazionale a favore di
un governo europeo rappresentativo che sia in grado, sia di imporre il rispetto
delle regole comuni ai governi nazionali, sia di distribuire le risorse con
criteri mutualistici fra aree più ricche a quelle più povere. Se si pensa al
problema, questo è esattamente ciò che già avviene quando uno governo nazionale
si permette di “commissariare” regioni, provincie e comuni ritenuti
inadempienti rispetto ai parametri fissati per il resto della nazione. Dunque,
se effettivamente si vuole uniformare un certo aggregato sociale e territoriale,
prima si devono fissare le regole condivise e le si devono far rispettare in
ogni luogo; poi, sulla base del rispetto di tali regole (i famosi “doveri” che,
a parer mio dovrebbero precedere e giustificare i “diritti”), si possono/devono
spostare le risorse dalle aree che producono un eccesso di risorse a quelle che
si trovano in maggior difficoltà. A parer mio, però, è proprio la condivisione
degli obblighi e delle regole comuni che giustifica l’attivazione delle
garanzie mutualistiche fra stati, regioni e singoli individui. Banalmente, sto
solo sostenendo che non può esserci un’Unione Europea se gli aderenti non sono
disposti a sottomettersi al medesimo “contratto sociale” perché, al di fuori di
tale accordo, esistono solo i rapporti di forza: forti contro deboli, ricchi
contro poveri, creditori contro debitori.
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