giovedì 9 aprile 2015

Recensione: Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana in Libia


“Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana in Libia”, si Federico Cresti, edizioni Carocci, ISBN: 978-88-430-5703-0.
Il saggio racconta le vicissitudini della colonizzazione agricola della Libia, concentrandosi soprattutto sulla descrizione dell’attività che si sviluppò in Cirenaica grazie alle iniziative dell’ECC, l’Ente per la Colonizzazione della Cirenaica. L’Autore parte da prima della conquista della Libia da parte dell’Italia fornendo una descrizione del contesto fisico e politico dell’altopiano cirenaico, allora sottoposto formalmente al dominio turco, ma in realtà governato dalla confraternita senussita. Riguardo alle potenzialità agricole della regione, vengono fin dall’allora delineate alcune buone opportunità di adattamento delle zone migliori ad un tipo di agricoltura assimilabile a quello del meridione d’Italia e basata su un misto di colture cerealicole e arboree (soprattutto vite e ulivo). Emergono però fin da subito anche le ineludibili difficoltà di condurre in quei luoghi un piano di valorizzazione agricola che dipendono sia da fattori fisici e idrogeologici sia dal contesto socio culturale delle popolazioni che abitano quei territori. I problemi dell’approvvigionamento idrico, legati all’instabilità del livello pluviometrico e alla natura carsica del terreno (che favorisce il rapido drenaggio delle acque) furono già messi in luce già nel 1909 durante una spedizione finanziata dal Jewish Territorial Organization, con la finalità di valutare la possibilità di istallare laggiù un insediamento ebraico e. in quel contesto, le risorse del territorio furono ritenute non sufficienti per permettere tale tipo di esperimento, soprattutto perché l’operazione avrebbe richiesto ingenti investimenti finalizzati alla soluzione del problema della stabilizzazione delle risorse idriche.
Dopo l’invasione italiana, fu necessario attendere la fine della prima guerra mondiale per poter cominciare l’opera di valorizzazione della nuova colonia. A questo fine venne creato l’Ente per la colonizzazione della Cirenaica (ECC). Esso però, cominciò a produrre risultati concreti solo a partire dagli anni trenta del novecento, sia a causa di problemi oggettivi, a cominciare da quello dell’ordine pubblico (fu necessario una lunga e discutibile serie di campagne militari per avere ragione della resistenza locale), sia a causa dei problemi di sottocapitalizzazione dell’ente che non permettevano di affrontare immediatamente tutti quegli investimenti che sarebbero stati necessari. Fu comunque solo sul finire degli anni trenta e, pertanto, a ridosso dello scoppio della seconda guerra, mondiale che effettivamente fu possibile cominciare ad attivare in modo massiccio e relativamente efficiente il piano di colonizzazione agricola che ebbe la sua consacrazione pratica e mediatica, accuratamente pianificato dal regime fascista, prima attraverso l’insediamento dei cosiddetti “Ventimila” nel corso del millenovecento trentotto, ai quali seguirono gli “Undicimila” nell’anno successivo.
Difficile fare un bilancio di tali iniziative, che furono rapidamente vanificate dalla disfatta bellica e dalla conseguente perdita di sovranità da parte dell’Italia. Dall’opera di Cresti emerge un quadro che, a pare mio, sembra sancire un certo successo di tali programmi che, effettivamente, portarono ad una sensibile valorizzazione agricola del territorio. Tale opera avrebbe probabilmente portato a risultati ancora più significati se l’Italia non si fosse lasciata coinvolgere nella sciagurata avventura del secondo conflitto mondiale. Bisognerebbe poi tenere conto non solo dello sforzo economico e, se vogliamo, dei primi risultati a cui portò l’esperimento, ma anche del costo sociale che esso comportò. Bisogna infatti ricordare che la colonizzazione agricola, seppur impostata, tutto sommato, razionalmente si basava su una visione profondamente ideologica propugnata dal regime fascista e fu fatta a scapito delle popolazioni arabe che, di fatto, furono espropriata delle terre migliori e confinate nelle terre marginali adatte alla pastorizia e meno idonee a supportare un tipo di agricoltura intensiva.
In sintesi, il saggio di Federico Cresti risulta un’opera interessante, anche se, è bene sottolinearlo, un po’ specialistica e ci aiuta a comprendere bene sia il passato che il presente di quei territori. Soprattutto a noi italiani, “Non desiderare la terra d’altri” dovrebbe anche aiutarci a rammentare le conseguenze nefaste delle nostre interferenze e i costi sociali ed economici, mai chiaramente ammessi, causati dal nostro colonialismo.  

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