“Non desiderare la terra
d’altri. La colonizzazione italiana in Libia”, si Federico Cresti, edizioni Carocci,
ISBN: 978-88-430-5703-0.
Il saggio racconta le
vicissitudini della colonizzazione agricola della Libia, concentrandosi
soprattutto sulla descrizione dell’attività che si sviluppò in Cirenaica grazie
alle iniziative dell’ECC, l’Ente per la Colonizzazione della Cirenaica.
L’Autore parte da prima della conquista della Libia da parte dell’Italia
fornendo una descrizione del contesto fisico e politico dell’altopiano
cirenaico, allora sottoposto formalmente al dominio turco, ma in realtà
governato dalla confraternita senussita. Riguardo alle potenzialità agricole
della regione, vengono fin dall’allora delineate alcune buone opportunità di
adattamento delle zone migliori ad un tipo di agricoltura assimilabile a quello
del meridione d’Italia e basata su un misto di colture cerealicole e arboree
(soprattutto vite e ulivo). Emergono però fin da subito anche le ineludibili
difficoltà di condurre in quei luoghi un piano di valorizzazione agricola che
dipendono sia da fattori fisici e idrogeologici sia dal contesto socio culturale
delle popolazioni che abitano quei territori. I problemi
dell’approvvigionamento idrico, legati all’instabilità del livello
pluviometrico e alla natura carsica del terreno (che favorisce il rapido
drenaggio delle acque) furono già messi in luce già nel 1909 durante una
spedizione finanziata dal Jewish Territorial Organization, con la finalità di
valutare la possibilità di istallare laggiù un insediamento ebraico e. in quel
contesto, le risorse del territorio furono ritenute non sufficienti per
permettere tale tipo di esperimento, soprattutto perché l’operazione avrebbe
richiesto ingenti investimenti finalizzati alla soluzione del problema della stabilizzazione
delle risorse idriche.
Dopo l’invasione italiana,
fu necessario attendere la fine della prima guerra mondiale per poter
cominciare l’opera di valorizzazione della nuova colonia. A questo fine venne
creato l’Ente per la colonizzazione della Cirenaica (ECC). Esso però, cominciò
a produrre risultati concreti solo a partire dagli anni trenta del novecento,
sia a causa di problemi oggettivi, a cominciare da quello dell’ordine pubblico
(fu necessario una lunga e discutibile serie di campagne militari per avere
ragione della resistenza locale), sia a causa dei problemi di sottocapitalizzazione
dell’ente che non permettevano di affrontare immediatamente tutti quegli
investimenti che sarebbero stati necessari. Fu comunque solo sul finire degli
anni trenta e, pertanto, a ridosso dello scoppio della seconda guerra, mondiale
che effettivamente fu possibile cominciare ad attivare in modo massiccio e
relativamente efficiente il piano di colonizzazione agricola che ebbe la sua
consacrazione pratica e mediatica, accuratamente pianificato dal regime
fascista, prima attraverso l’insediamento dei cosiddetti “Ventimila” nel corso
del millenovecento trentotto, ai quali seguirono gli “Undicimila” nell’anno
successivo.
Difficile fare un bilancio
di tali iniziative, che furono rapidamente vanificate dalla disfatta bellica e
dalla conseguente perdita di sovranità da parte dell’Italia. Dall’opera di
Cresti emerge un quadro che, a pare mio, sembra sancire un certo successo di
tali programmi che, effettivamente, portarono ad una sensibile valorizzazione
agricola del territorio. Tale opera avrebbe probabilmente portato a risultati
ancora più significati se l’Italia non si fosse lasciata coinvolgere nella
sciagurata avventura del secondo conflitto mondiale. Bisognerebbe poi tenere
conto non solo dello sforzo economico e, se vogliamo, dei primi risultati a cui
portò l’esperimento, ma anche del costo sociale che esso comportò. Bisogna
infatti ricordare che la colonizzazione agricola, seppur impostata, tutto
sommato, razionalmente si basava su una visione profondamente ideologica
propugnata dal regime fascista e fu fatta a scapito delle popolazioni arabe che,
di fatto, furono espropriata delle terre migliori e confinate nelle terre marginali
adatte alla pastorizia e meno idonee a supportare un tipo di agricoltura
intensiva.
In sintesi, il saggio di
Federico Cresti risulta un’opera interessante, anche se, è bene sottolinearlo,
un po’ specialistica e ci aiuta a comprendere bene sia il passato che il
presente di quei territori. Soprattutto a noi italiani, “Non desiderare la
terra d’altri” dovrebbe anche aiutarci a rammentare le conseguenze nefaste
delle nostre interferenze e i costi sociali ed economici, mai chiaramente
ammessi, causati dal nostro colonialismo.
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