martedì 17 giugno 2014

Recensione: Recessione Italia – Come usciamo dalla crisi più lunga della storia


“Recessione Italia – Come usciamo dalla crisi più lunga della storia”, di Federico Fubini editrice Laterza-La Repubblica, ISBN: 978-88-581-1212-0.
L’Autore introduce l’argomento costatando che, dall’inizio conclamato della crisi nel 2008 e fino al 2013, l’Italia abbia perduto circa il 9% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Per ritrovare nelle statistiche storiche una diminuzione che sia paragonabile e altrettanto rilevante si deve risalire al periodo 1917-21 durante il quale l’economia italiana e, più in generale, europea, scontò le eccezionali trasformazioni politiche ed economiche conseguenti alla conclusione della prima Guerra Mondiale. La morale è che non c’è mai stata, fino ad ora, una tale contrazione economica in tempo di pace e che non fosse dovuta a eventi tanto eccezionali quanto traumatici. Per altro, per quanto gravi e diffuse fossero le cause della crisi iniziata nel 2008, si deve poi aggiungere che l’Italia, rispetto alle altre nazioni, sembra averne sofferto di più e, soprattutto, non appare in grado di riprendersi rapidamente. Perché? Si chiede l’Autore.
La sua tesi è abbastanza semplice, le radici della crisi italiana e, soprattutto, l’incapacità di ripresa, sono spiegate attraverso l’analisi di alcune caratteristiche peculiari dell’economia e della politica del nostro paese. Fin dal primo dopoguerra. L’Italia si è sviluppata ereditando alcune caratteristiche dello stato corporativo fascista; da noi, il liberismo come altri “valori” del capitalismo sono culturalmente invisi sia agli imprenditori sia ai sindacati e, la “concertazione” rimane il termine di riferimento e il fine auspicato. Nel nostro paese sono anche storicamente mancati alcuni contrappesi necessari al corretto funzionamento dell’economia di mercato; ad esempio, la presenza di un efficace controllo contro i trust e, al contrario, in passato è stata promossa la creazione di conglomerati sotto controllo pubblico che si sono poi dimostrati, in molti casi, ipertrofici e politicizzati.
Anche la politica fiscale sembra essere stata sempre calibrata sulla tutela degli status quo e, invece che essere utilizzata per favorire il reddito d’impresa e da lavoro, continua a tutelare e avvantaggiare le diverse tipologie di rendita (di categoria, di posizione, finanziarie e immobiliari). In questo caso, il Paese non riflette solo l’azione e gli interessi delle diverse lobby dei “rentier” ma anche l’esplicito desiderio di buona parte della popolazione che, invecchiando, cerca disperatamente di difendere i propri privilegi acquisti a scapito delle opportunità offerte alle nuove generazioni, più dinamiche ma prive di alcun potere e di rappresentanza.
Infine, contro di noi comincia anche a congiurare una caratteristica di base del nostro stesso tessuto economico, la scelta di favorire la piccola – media impresa. Una volta vanto del nostro sistema, la PMI non sembra essere più pagante in un contesto che rende  impossibile la svalutazione competitiva (a causa dell’adesione all’EURO) e di fronte al fenomeno della globalizzazione che, sempre più, espone le produzioni “labor intensive” alla concorrenza delle nazioni emergenti. Ora è necessario concentrarsi sull’eccellenza, l’alto “di gamma”, i prodotti ad alta tecnologia, l’ottimizzazione dei processi produttivi e logistici, tutte caratteristiche che richiedono metodo, organizzazione e, spesso, un livello minimo dimensionale che permetta il pieno sviluppo di ogni sinergia.
Un’analisi acuta che si aggiunge e integra ad altre sui medesimi argomenti.

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