“Recessione Italia – Come usciamo
dalla crisi più lunga della storia”, di Federico Fubini editrice Laterza-La
Repubblica, ISBN: 978-88-581-1212-0.
L’Autore introduce l’argomento costatando
che, dall’inizio conclamato della crisi nel 2008 e fino al 2013, l’Italia abbia
perduto circa il 9% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Per ritrovare nelle
statistiche storiche una diminuzione che sia paragonabile e altrettanto
rilevante si deve risalire al periodo 1917-21 durante il quale l’economia
italiana e, più in generale, europea, scontò le eccezionali trasformazioni
politiche ed economiche conseguenti alla conclusione della prima Guerra
Mondiale. La morale è che non c’è mai stata, fino ad ora, una tale contrazione
economica in tempo di pace e che non fosse dovuta a eventi tanto eccezionali
quanto traumatici. Per altro, per quanto gravi e diffuse fossero le cause della
crisi iniziata nel 2008, si deve poi aggiungere che l’Italia, rispetto alle
altre nazioni, sembra averne sofferto di più e, soprattutto, non appare in
grado di riprendersi rapidamente. Perché? Si chiede l’Autore.
La sua tesi è abbastanza
semplice, le radici della crisi italiana e, soprattutto, l’incapacità di ripresa,
sono spiegate attraverso l’analisi di alcune caratteristiche peculiari dell’economia
e della politica del nostro paese. Fin dal primo dopoguerra. L’Italia si è
sviluppata ereditando alcune caratteristiche dello stato corporativo fascista;
da noi, il liberismo come altri “valori” del capitalismo sono culturalmente invisi
sia agli imprenditori sia ai sindacati e, la “concertazione” rimane il termine
di riferimento e il fine auspicato. Nel nostro paese sono anche storicamente
mancati alcuni contrappesi necessari al corretto funzionamento dell’economia di
mercato; ad esempio, la presenza di un efficace controllo contro i trust e, al
contrario, in passato è stata promossa la creazione di conglomerati sotto
controllo pubblico che si sono poi dimostrati, in molti casi, ipertrofici e
politicizzati.
Anche la politica fiscale sembra essere
stata sempre calibrata sulla tutela degli status quo e, invece che essere
utilizzata per favorire il reddito d’impresa e da lavoro, continua a tutelare e
avvantaggiare le diverse tipologie di rendita (di categoria, di posizione,
finanziarie e immobiliari). In questo caso, il Paese non riflette solo l’azione
e gli interessi delle diverse lobby dei “rentier” ma anche l’esplicito
desiderio di buona parte della popolazione che, invecchiando, cerca
disperatamente di difendere i propri privilegi acquisti a scapito delle opportunità
offerte alle nuove generazioni, più dinamiche ma prive di alcun potere e di
rappresentanza.
Infine, contro di noi comincia
anche a congiurare una caratteristica di base del nostro stesso tessuto
economico, la scelta di favorire la piccola – media impresa. Una volta vanto
del nostro sistema, la PMI non sembra essere più pagante in un contesto che
rende impossibile la svalutazione competitiva
(a causa dell’adesione all’EURO) e di fronte al fenomeno della globalizzazione
che, sempre più, espone le produzioni “labor intensive” alla concorrenza delle
nazioni emergenti. Ora è necessario concentrarsi sull’eccellenza, l’alto “di
gamma”, i prodotti ad alta tecnologia, l’ottimizzazione dei processi produttivi
e logistici, tutte caratteristiche che richiedono metodo, organizzazione e,
spesso, un livello minimo dimensionale che permetta il pieno sviluppo di ogni
sinergia.
Un’analisi acuta che si aggiunge e
integra ad altre sui medesimi argomenti.
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