giovedì 22 maggio 2014
giovedì 15 maggio 2014
Democrazia e Rappresentanza: Una riflessione sulle modalità per rinnovare la vita politica in Italia
Quando parliamo di democrazia,
rappresentanza democratica e sistemi democratici e, soprattutto, si riflette su
quanto sia effettivamente in vigore, rimango colpito dal fatto che, a parer
mio, vi sono degli elementi evidenti che sembrano vistosamente in contrasto con
l’obiettivo che, almeno in teoria, si pongono queste tipologie di architetture
politiche. Viene da chiedersi, cos’è la Democrazia? Molti si pongono e si sono
posti in passato questa domanda; a questo proposito, penso di fare
un’affermazione abbastanza condivisa quando
definisco i sistemi democratici come quei regimi che si pongono
l’obiettivo di garantire la sovranità popolare. Questo però, nella pratica cosa significa e a
cosa porta?
Il concetto di “governo” si
riassume nella potestà di esercitare il potere legislativo, esecutivo e
giudiziario e si estrinseca nel concetto di “sovranità”. La Democrazia, cioè il
“governo del popolo”, sarebbe quindi quella forma di governo che garantisce a
questo soggetto la ”sovranità popolare”. Sappiamo che le forme attraverso le
quali può estrinsecarsi realmente la sovranità popolare possono essere
molteplici. Nella pratica, però, sono rare o inesistenti le forme della
“Democrazia diretta”, la quale prevede un ruolo attivo continuo e assembleare dei cittadini allo scopo di
amministrare e legiferare. La norma,
invece, prevede di solito l’applicazione
di qualche forma di “Democrazia rappresentativa” che implica l’esercizio delle potestà previste dalla sovranità
attraverso i meccanismi della
rappresentanza, i quali, prevedono l’elezione
di delegati, incaricati a loro volta, di provvedere direttamente o
indirettamente all’esercizio della sovranità.
Una società democratica, per
essere effettivamente operante, dovrebbe
quindi interrogarsi rispetto al come attuare la propria sovranità e, di
conseguenza, sul come strutturare la propria rappresentanza e, di conseguenze
dovrebbe domandarsi almeno:
1) E’
possibile o anche solo auspicabile pervenire a qualche forma di democrazia
diretta?
2) In
alternativa, quali strumenti bisognerebbe mettere in atto acciocché un regime
democratico sia veramente rispettoso della sovranità popolare nel momento in
cui si estrinsechi attraverso delle forme di delega e rappresentanza?
Evidentemente, riguardo a questi
due interrogativi, ognuno può avere le sue opinioni personali, non penso,
infatti, che esistano dei criteri veramente fissi nel tempo e oggettivi per
risolvere definitivamente la questione; da qui in poi, quindi esprimerò anch’io
semplici considerazioni soggettive tenendo presente, soprattutto, quanto
ritengo applicabile e auspicabile per un paese con caratteristiche culturali, a
mio avviso molto peculiari, com’è l’Italia e che, per certi aspetti, la
distinguono dalla cultura sociale e politica di matrice anglosassone.
Partendo quindi dal primo
interrogativo, io rimango molto scettico sulla possibilità di ricorrere
massicciamente a forme di democrazia diretta, questo anche ammettendo che,
volendo, ci sarebbero ormai le possibilità tecnologiche per metterle in atto.
Tali forme, hanno limiti legati a fattori oggettivi; basti notare che Il grado di coinvolgimento emotivo, l’ammontare di tempo disponibile e
le competenze richieste per poter capire i problemi di una società complessa
come la nostra e, di conseguenza, poter amministrare e legiferare, superano
semplicemente le capacità di gestione di qualsiasi individuo, e non solo l’esperienza
e le possibilità del cittadino medio.
Lo strumento tipico della
democrazia diretta è l’approccio assembleare, luogo (ancorché virtuale)
necessario allo scambio di opinioni e informazioni e all’esercizio del diritto
di veto e di voto. Altra modalità tipica è, invece, quella del referendum.
Parlando del primo strumento, l’assemblea
popolare, a me pare che esso non sia uno strumento idoneo all’esercizio
effettivo della vita democratica. Se, riflettiamo sul fatto che tale modalità
di esercizio della sovranità è tipica delle società arcaiche o tribali, oppure,
in ottica moderna, ad esempio, delle
assemblee di condominio, ci rendiamo subito conto come esso abbia parecchi
difetti:
1) Comincio
da quello che, a mio avviso, è il peggiore di essi. L’assemblea non è per me il
luogo di massima espressione del consenso né, tanto meno il mezzo attraverso il
quale maturare decisioni veramente razionali; al contrario, il suo stesso
processo di svolgimento si presta più a far emergere inclinazioni emotive o “di
pancia” rispetto a quanto si presti a mezzo per soppesare le diverse
implicazioni di un argomento discusso. In sintesi, l’assemblea è spesso guidata
e retta dagli elementi carismatici, dai “potenti”, dai retori e dai demagoghi. Viene più spesso usata come
mezzo per strappare il consenso più che per farlo emergere genuinamente; più
per farsi avallare decisioni già
maturate che per prenderne collegialmente.
2) Il
regime assembleare è tutt’altro che libero e democratico; esso stesso è frutto
di regole che il convitato spesso non ha potuto discutere a priori e che sono
spesso il frutto di decisioni a cui esso non ha preso parte. Ad esempio. Chi
indice l’assemblea? Chi può parteciparvi? Chi ne redige l’ordine del giorno?
Chi l’amministra? Chi ne redige il verbale? …
Alla fine, i risultati, le decisioni prese, sono più spesso funzioni delle regole attraverso le quali si assicura
lo svolgimento e il dibattito, rispetto a quanto riflettano le idee dei
presenti e le argomentazioni di chi ha potuto esprimerle.
3) Richiede
tempo, voglia, impegno e responsabilità e non tutti hanno il desiderio o la
possibilità di mettere a disposizione queste risorse. A questo proposito,
alcuni argomentano che sia dovere di ogni soggetto il collaborare attivamente
alla vita politica; io non sono di questa opinione. La democrazia rimane
innanzi tutto un diritto e non può essere ridotta a fastidio o peggio, a
gravoso dovere. Semmai, bisognerebbe che si creassero strumenti attraverso i
quali ognuno desideri, o almeno, abbia facilità a partecipare, mezzi attraverso
i quali incentivare la presa di responsabilità, la consapevolezza ma anche
l’effettiva efficacia del proprio intervento.
A mio avviso, pensandoci bene, sarebbe possibile trovare
altri elementi che scoraggino il ricorso a forme di democrazia diretta di tipo
assembleare, ma già quelli elencati qui sopra uniti all’analisi delle
esperienze storiche che ne hanno visto qualche applicazione, dovrebbe già
essere sufficienti a scoraggiare l’applicazione di tali metodi.
Altra cosa lo
strumento del referendum che, a mio avviso, potrebbe essere usato più diffusamente
quanto meno per sondare l’indirizzo della popolazione.
Questa tipologia di consultazione propone diverse classificazioni:
1) propositivi:
sono indetti per proporre una nuova legge e, pertanto, vincolano il legislatore a emanare una
legge coerente con l'espressione popolare;
2) consultivi:
valutano il parere popolare circa una determinata questione politica;
3) confermativi:
richiedono il consenso popolare perché una legge o una norma costituzionale
possa entrare in vigore;
4) abrogativi:
per abrogare una legge esistente, rimuovendola dall'ordinamento;
5) deliberativi:
mediante i quali i cittadini deliberano secondo il principio della sovranità
popolare;
6) legislativi:
che introducono leggi locali o statali.
Da notare che i referendum
“propositivi”, “deliberativi” e “legislativi” non sono permessi in Italia.
Premetto che, personalmente non sono d’accordo
sul fatto che, nel nostro ordinamento, non sia possibile sollecitare il parere
popolare riguardo all’introduzione di una nuova legge; riconosco invece
l’oggettiva difficoltà riguardo alla possibilità di permettere di legiferare
direttamente per il tramite di un referendum.
Detto ciò, per essere applicabile
su larga scala il referendum dovrebbe prevedere forme più snelle e, forse,
mezzi più informali per giungere ad una
votazione. Rimane comunque abbastanza facile da comprendere come una società
civile non possa essere amministrata “a colpi” di referendum; per quanto diffuso, questo strumento implica
una certa lentezza per essere messo in atto; gli aspetti che i diversi quesiti
sarebbero chiamati a risolvere necessitano di essere descritti, spiegati,
analizzati e dibattuti. A seguito di ciò, sarebbe necessario votare. Per queste
caratteristiche, il referendum può essere idoneo per decidere questioni anche
di grande importanza ma non è per sua natura adatto, ad esempio, a gestire l’ordinaria
amministrazione, le emergenze o aspetti che richiedano una certa competenza
tecnica specifica.
I ragionamenti fatti fin ora non
lasciano a mio avviso molte alternative se non l’optare verso qualche forma di
democrazia rappresentativa.
Per sua natura, questa forma di
esercizio della democrazia implica il ricorso alla rappresentanza. Di
conseguenza, si rende necessario stabilire delle regole che rendano chiari la
forma e i limiti del mandato che il cittadino elettore conferisce al suo delegato
politico.
Per un paese come il nostro,
proprio ragionando sul tema del mandato, sulle modalità attraverso le quali
conferirlo e, nel caso, revocarlo, esistono, a mio avviso, ampi spazi per
definire una via italiana alla democrazia che sia più consona alla nostra cultura.
Prima però di cercare di
identificare tali ambiti, comincio con sottolineare alcuni aspetti che secondo
me sono tipici del nostro essere italiani e che, per certi versi, dovrebbero
essere tenuti in debito conto nel momento in cui si cerca di personalizzare il
nostro approccio alla democrazia:
1) Siamo
propensi più di altri popoli al localismo. Nonostante il fatto che il nostro
territorio nazionale sia relativamente insignificante e limitato, almeno in
paragone all’estensione di altri Stati,
ci riteniamo molto differenti gli uni rispetto agli altri; abbiamo il concetto
di municipalità e di territorio nel sangue. Alcuni ci potrebbero fare notare
che questo forse sia più un aspetto psicologico che reale, la verità però è che
a noi piace vederci così e che, anche su aspetti pratici (es. l’enogastronomia)
questo crea delle differenze rilevanti rispetto alle diverse aree geografiche
del paese. Questa predisposizione, insieme a qualche problema di reciproca convivenza
ormai marginale, crea, all’opposto un clima positivo che favorisce il
prosperare di un grandissimo e variegato
patrimonio culturale.
2) Anche
per le ragioni evidenziate qui sopra siamo propensi alla frammentazione, al
familismo e a un approccio fortemente incentrato sul concetto di clan, quando
non proprio teso al nefasto fenomeno del clientelismo. Tra l’altro, e anche per
queste ragioni, fondamentalmente siamo un popolo prevalentemente conservatore. Quest’insieme
di caratteristiche non è necessariamente sempre un male, ma rendono di
difficile applicazione alcuni strumenti tipici dei modelli democratici di
importazione anglosassone. Per noi risultano abbastanza incomprensibile
riuscire ad identificarci tutti in pochi partiti di massa. Quando essi esistono,
spesso non sono altro che un cappello di comodo per raggruppare coalizioni e
correnti. Di conseguenza, i nostri schieramenti politici e parlamentari sono
solo apparentemente monolitici e hanno una forte predisposizione all’erosione
se non alla disintegrazione. Anche il concetto di alternanza del voto, e qui
forse, mostriamo più coerenza di quanta normalmente ci venga attribuita, ci
risulta assai ostico. Alla fine, non penso che ci possiamo qualificare come un
popolo politicamente pragmatico non tendiamo a scegliere i nostri
rappresentanti fra coloro che riteniamo maggiormente capaci a risolvere i
problemi della nostra società ma tendiamo a concedere le nostre preferenze
secondo un quadro ideologico “forte” che, più o meno consciamente racchiude,
nel bene e nel male, i principi che regolano le nostre scelte, i nostri
comportamenti e le nostre preferenze. Tendiamo quindi ad identificarci in
questo quadro e a dare fiducia a chi sembra, a sua volta, farsi portatore del
medesimo schema ideologico e culturale e, pertanto, spesso riconfermiamo sempre
le stesse forze politiche a prescindere dai risultati ottenuti nella loro
azione di governo. Ciò è dovuto non tanto alla fiducia che nutriamo nei loro confronti,
quanto al radicamento delle nostre ideologiche, aspetto che finisce per impedirci di “cambiare sponda”
e che, anche di fronte a cambiamenti di rotta momentanei, finisce per
riportarci rapidamente sulle nostre posizioni di partenza. Detto in altre
parole, ritengo che nella media preferiamo scegliere come rappresentanti gli
affini rispetto a quanto ricerchiamo i governanti migliori e, difficilmente,
nell’ambito di una possibilità di scelta ristretta o, peggio, dualistica,
adottiamo il criterio punitivo per modificare la nostra intenzione di voto,
piuttosto che dare fiducia “all’altra parte” preferiamo togliere il nostro
appoggio attraverso l’astensionismo.
Scorrendo questo insieme,
peraltro non esaustivo, di specificità, a mio avviso è già possibile
individuare alcuni strumenti che più di altri si adatterebbero alla nostra
realtà rispetto ad altri. Ad esempio, personalmente non ritengo sia per noi
fisiologica una legge elettorale che ci costringe ad una scelta netta fra due
schieramenti e, aggiungerei che trovo illogico ricorrere per forza al concetto
di alternanza. Una buona legge elettorale per gli italiani va, a mio avviso, in
una direzione molto diversa rispetto a quanto si prospetta attualmente. Essa
dovrebbe prevedere:
1) Un
congruo numero di partiti e/o movimenti indipendenti. Con “congruo” intendo
dire che essi dovrebbero essere più di due e possibilmente, non approssimarsi
troppo, nella sostanza, alla decina. Con
“indipendenti”, ho in testa un sistema
che impedisca alleanze di simbolo o coalizioni prima del voto. Detto in altre
parole: al voto ci si presenta da soli e, solo dopo l’esito della
consultazione, si darebbe corso ad una fase di contrattazione di un sistema di
alleanze che permetta di governare.
2) Collegi
elettorali relativamente piccoli che rendano, per quanto possibile, non
necessaria l’applicazione di una soglia di sbarramento significativa (per me il
massimo tollerabile è uno sbarramento che si collochi fra il 2% e il 4%, con
una preferenza verso i livelli di soglia più bassi!). Sono convinto, infatti
che già la limitazione geografica del collegio sia di per sé spesso sufficiente
a garantire una certa polarizzazione rispetto ai rappresentanti eleggibili.
3) L’obbligo
di indicazione di una serie di preferenze (ordinate), pena la nullità del voto.
Riguardo a questa necessità, chiarirò le mie ragioni fra breve.
Quanto elencato nei tre punti
precedenti, non è solo l’ennesima proposta di riforma di legge elettorale, ma
costituisce il presupposto per un passo, a mio avviso rivoluzionario, che la
nostra collettività si potrebbe permettere rispetto agli altri regimi
democratici. Ho già anticipato che uno degli aspetti cardine della democrazia è
il concetto della “Rappresentanza”. Il problema della rappresentanza politica è
che essa non è facilmente revocabile “ad nutum”, cioè arbitrariamente e secondo
i tempi e i desideri del rappresentato. Noto che il principio di revoca
arbitrario è ciò che caratterizza il buon funzionamento di altri meccanismi
legati al rapporto fiduciario, ad esempio quello fra azionisti e dirigenza di
una società o, come abbiamo accennato, quello fra condomini e amministratore.
In pratica nessuno mantiene in carica un rappresentante legale o commerciale,
un manager o un amministratore nel momento in cui abbia perso la fiducia nei
suoi confronti; esistono dei tempi, delle procedure e delle limitazioni che
guidano il processo di revoca della fiducia, ma di norma, tale operazione non
richiede tempi estremamente lunghi e comunque neanche paragonabili a quanto
previsto dalla durata media di un mandato elettorale. C’è però un aspetto , da considerare in questo discorso; per poter
conferire e, conseguentemente, togliere e riassegnare ad altri la
rappresentanza e necessario che sia definito chiaramente l’insieme dei mandanti
ai quali il rappresentante deve rispondere. Non vedo altro modo per giungere a
questo obiettivo se non rinunciando a uno dei meccanismi storici del sistema
democratico, la segretezza del voto. In sintesi, se il voto non fosse segreto e
se vi fosse l’obbligo di esprimere delle preferenze, sarebbe possibile
individuare esattamente l’insieme degli elettori che hanno il diritto, in qualsiasi
momento e attraverso una procedura prestabilita, di revocare il proprio mandato
di rappresentanza sostituendolo con un altro. E’ evidente che un’impostazione
di questo genere comporta anche qualche rischio, la ragione storica della
segretezza del voto è da ricercarsi nella necessità di tutelare i votanti
contro le possibili intimidazioni. Queste ragioni sono fortemente sentite in
luoghi dove la democrazia è ancora giovane o dove il confronto sia molto
radicale o, ancora, là dove esistano forti clientelismi o peggio, dove sia
forte l’influenza, delle mafie. A questo proposito, però, vorrei fare notare
che, di fatto la segretezza del voto non ha comunque garantito l’immunizzazione
nei confronti di questi problemi. Dove il processo democratico è ancora stentato,
spesso il problema non è tanto legato al candidato da scegliere, spesso
scontata dall’appartenenza ad un’etnia o ad una fede religiosa, quanto alla
stessa partecipazione al voto (es. Afghanistan o Iraq); la dove, invece, esiste
un confronto radicale, non è comunque difficile, salvo eccezioni, risalire alle
preferenze politiche di chi si reca al voto; nei casi di mafie e clientelismo
infine, è purtroppo noto che la segretezza del voto non sia dimostrato
strumento sufficiente per impedire
l’effettivo controllo dei pacchetti di votanti all’interno di un certo
territorio.
Per altro, l’Italia è ormai
caratterizzata da una certa stabilità democratica e quindi, almeno per adesso
non soffre dei problemi legati al radicalismo politico, mentre, purtroppo non è
ancora immune all’influenza delle mafie; in quest’ultimo caso, però ci sarebbe
la magistratura a vigilare, non diversamente da quanto faccia già oggi. Quello
che invece vorrei evitare attraverso la mia proposta è che sia la magistratura,
attraverso l’azione penale ad essere l’unico soggetto capace “de facto” di
fermare l’azione politica di un rappresentante eletto prima della scadenza dei
termini del mandato elettorale. Con questo non intendo dire, è bene
sottolinearlo, che la magistratura non debba interferire nel caso in cui i
comportamenti in oggetto costituiscano reati, tutt’altro, essa deve continuare
a svolgere il suo ruolo di guardiano contro il malaffare esattamente come è
avvenuto fin d’ora; è semmai il cittadino però che deve riacquisire il diritto
di esautorare il proprio delegato ben prima che una eventuale azione penale
faccia il suo corso. Non penso che un concetto di questo genere sia poi così
rivoluzionario, esso non fa che ricollegarsi al tanto dibattuto tema della
“questione morale”. Anche in testi noti (ad es. “Elogio del Moralismo” di
Stefano Rodotà) si sostiene il primato della morale e, il diritto/dovere
dell’elettore di agire prima di eventuali interventi giudiziari e, persino, in
assenza di reati si dovrebbe poter agire al fine di tutelare quelle idee, quei
principi e quell’immagine di decoro che
il delegato è tenuto ad incarnare e veicolare attraverso il mandato
conferitogli. Ma come mettere in atto queste azioni di tutela se non esautorando
immediatamente (o almeno in tempi brevi) colui che non si ritiene più degno di
fiducia?
In altri Paesi, forse più maturi,
ma comunque dov’è diffusa una mentalità diversa dalla nostra hanno
effettivamente risolto il problema diversamente, cioè attraverso la pressione
degli organi di informazione, del partito o dell’opinione pubblica che, agendo
sul senso di colpa del candidato lo forzano alle dimissioni. Da noi questi
metodi non sembrano, invece, funzionare bene. Io poi arrivo a spingermi a dire
che, in fondo, non è giusto che si proceda così, cioè sostengo che
effettivamente non sia tanto il partito o l’opinione pubblica (concetto spesso
poco definibile e misurabile) che ha il diritto di forzare la mano al
rappresentante quanto e esclusivamente i suoi rappresentati. Essi per me, sono
titolari del completo arbitrio nei suoi confronti, possono richiamarlo per
qualsiasi motivo, ancorché futile o totalmente arbitrario e possono mantenerlo
in carica anche di fronte allo scandalo manifestato dal resto dell’opinione
pubblica.
Ecco dunque che si spiega la
necessità di votare attraverso l’esplicito ricorso a preferenze che, andrebbero
ordinate secondo un preciso criterio di gradimento dal candidato preferito a
quello di grado ennesimo. Mano a mano che viene esautorato un candidato,
subentra il successivo.
Servirebbe a questo punto
risolvere almeno due ulteriori problemi. Il primo riguarda le modalità
attraverso le quali si deve svolgere il processo di disconoscimento della
rappresentanza; il secondo riguarda il come gestire il caso in cui si esaurisca
la lista di candidati disponibili. Riguardo a questi due aspetti, di nuovo,
ritengo di poter fornire qualche possibile via di soluzione che svilupperò,
tempo permettendo, in qualche intervento successivo. Per il momento mi fermo
qui!
venerdì 2 maggio 2014
Recensione: La trappola dell’austerity – Perché lì ideologia del rigore blocca la ripresa
“La trappola dell’austerity –
Perché lì ideologia del rigore blocca la ripresa”, di Federico Rampini editrice
Laterza-La Repubblica, ISBN: 978-88-581-1163-5.
L’Autore parte costatando che le
economie mondiali, ad eccezione della zona euro, godono di ottima salute. Gli
Usa sembrano ormai fuori dalla crisi e navigano su tassi di crescita del PIL
intorno al 4%, mentre ogni mese l’occupazione cresce di centinaia di migliaia
d’unità (178.000 è la media mensile per i primi tre mesi del 2014). Pure il
Giappone, afflitto da una stagnazione più che ventennale sembra essere uscito
dal letargo con tassi di crescita superiori all’1,5% (in realtà per il 2014 le
previsioni del FMI sono, però, orientate al ribasso, intorno all’1,4%!). Non
parliamo, invece, delle altre economie; Cina e India, ma anche Corea, Indonesia
e Brasile, continuano a snocciolare tassi di crescita impressionanti, ed è
previsto che seguano lo stesso trend anche nel 2014. Solo l’Europa resta al
palo, in bilico fra stagnazione, crisi e una stentata ripresa che, al meglio
delle previsioni dovrebbe attestarsi intorno al + 1,2% nella zona euro per il
2014 (fonte: European Commision IP/14/188 del 25/02/14) contro una media del 4%
a livello mondiale. Come mai, si chiede Rampini, l’Europa arranca e fatica a
uscire dalla crisi in un contesto mondiale sostanzialmente roseo dal punto di
vista della crescita?
Secondo l’Autore, molte delle
responsabilità sono da ricercare nella politica di rigore perseguita dai
governi europei e ispirata dai diktat tedeschi. Imputata principale, la
politica dell’austerity incentrata sui tagli ai bilanci cui fa seguito una
politica monetaria della BCE considerata, da alcuni, conservatrice e non
sufficientemente “aggressiva”. Proprio riguardo alla politica monetaria,
oggigiorno si sta rapidamente diffondendo un nuovo “Verbo” incentrato su una
particolare interpretazione dei modelli keynesiani e che prevede un uso poco
ortodosso (secondo gli schemi correnti) della leva monetaria abbinata a una
marcata politica di disavanzo pubblico. La nuova tendenza passa sotto il nome
di “Teoria Monetaria Moderna” (MMT- Modern Monetary Theory) e, i suoi
sostenitori, ritengono che sia soprattutto grazie alla sua applicazione che USA
e Giappone siano usciti rapidamente dalle secche. La MMT supera da sinistra la
visione delle colombe neokeynesiane, già favorevoli a una visione meno rigorosa
dei vincoli sul disavanzo (es. Paul Krugman e Joseph Stigliz), affermando senza
mezzi termini che non ci sono tetti e limiti razionali al deficit e al debito
pubblico sostenibile da uno Stato. Le banche centrali, infatti, avrebbero la
possibilità illimitata di finanziarlo stampando moneta e anzi, avrebbero il
dovere di farlo per garantire la piena occupazione.
Queste affermazioni che, secondo
il pensiero economico europeo di orientamento rigorista, suonano come
perniciose eresie, stanno facendo proseliti non solo fra gli economisti ma
anche fra gente comune e capi-popolo e, di conseguenza, cresce il malcontento e
la disaffezione verso l’Unione, l’euro e le sue regole.
Di là dalla propria opinione nei
confronti della MMT (io personalmente sono un po’ scettico al riguardo!), il
saggio è utile per comprendere che, effettivamente, e soprattutto in economia, non
bisogna essere dogmatici, né in un senso, né nell’altro. Le politiche
economiche, in ultima analisi, sono scelte e, i mezzi per portarle a termine,
sono strumenti; nulla è sacro, nulla è immutabile e, soprattutto, non esiste
una ricetta assoluta valida per tutte le stagioni, ma solo misure che sono
buone o cattive in funzione del tempo e della situazione per la quale sono
attuate. Molti sono gli accenni che Rampini, in poche pagine, ci elargisce
spingendoci a qualche approfondimento e, sarà un caso, ma ormai, sono parecchie
le voci autorevoli che chiedono di imitare la politica monetaria della FED o
che s’ispirano alle iniziative economiche messe in atto del primo ministro
giapponese Shinzo Abe per far uscire il paese dalle secche della “Trappola della
liquidità”. Cresce, nel frattempo, la consapevolezza riguardo ai conglomerati
bancari, spesso ormai troppo grandi perché possano essere lasciati fallire (“Too
big to fail”) e che, secondo alcuni, andrebbero smembrati; mentre ormai sembra
avviarsi al tramonto l’autorevolezza dei “Signori del Rating” e, nello stesso
tempo, cresce l’importanza dei grandi fondi d’investimento e di quelli sovrani,
sempre più protagonisti della grande finanza internazionale (e non solo di
questa!).
Un bel libro davvero, semplice,
scorrevole e decisamente pieno di fatti curiosi e interessanti.
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