venerdì 10 giugno 2022

Recensione: Le Benevole

 "Le Benevole”; di Jonathan Littel; titolo originale: “Le Bienveillantes”; Traduzione di Margherita Botto; edizioni Einaudi; Isbn 978-88-06-18731-6.

Si tratta di un romanzo che vede come protagonista Maximilien Aue, nato in Alsazia (Francia) ma di padre tedesco che, proprio grazie al suo dualismo culturale e al suo bilinguismo dimostrerà di riuscire a muoversi con disinvoltura sia in Francia sia in Germania cogliendo le opportunità e le scappatoie che, nei momenti critici, gli offriranno entrambi i Paesi.

Maximilien all'inizio del romanzo si presenta; dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, sotto una falsa identità, si è trasferito nel nord della Francia dove dirige con successo una fabbrica di merletti, è sposato e conduce una tranquilla e agiata esistenza borghese; ormai è in età avanzata ed è intento a scrivere le proprie memorie dove descrive, senza alcun senso di colpa il suo ruolo nella Guerra e il suo passato giovanile di nazista, pesantemente immischiato nella macchina omicida della “Soluzione Finale”.

Maximilien durante la guerra ne ha letteralmente passate di “cotte e di crude”; si è unito alle SS e ha partecipato alla campagna del Caucaso entrando nelle famigerate Einsatzgruppen, i corpi speciali incaricati della ricerca e della eliminazione di ebrei, zingari e comunisti; poi ha combattuto a Stalingrado, uscendone ferito e decorato; infine ha ricevuto incarichi strettamente correlati alla verifica dell’efficienza dei campi di sterminio e del trasporto degli ebrei a partire dai Paesi occupati dall'esercito tedesco. In ragione di questa esperienza egli è entrato in contatto con moltissimi dei principali personaggi implicati con il nazismo (ad esempio, Speer) e con i gerarchi direttamente implicati nella soluzione finale (ad es. Himmler, Eichmann, Kaltenbrunner, Heydrich, Frank e tanti altri), fino ad incontrare lo stesso Hitler che finirà per “decorarlo” nuovamente (beh! Riguardo a questo punto non voglio rovinarvi la sorpresa!) in un momento appena precedente al suo suicidio e alla resa definitiva della Reich tedesco.

In virtù di questo suo ruolo da protagonista egli descrive come testimone diretto i fatti atroci della campagna orientale, dell’olocausto e della Soluzione Finale, ma non mostra alcun pentimento per il suo ruolo svolto. In questo suo atteggiamento, dove egli si vede fondamentalmente come un normale esponente del suo tempo, della sua cultura e della sua classe sociale, nonché diligente e fedele esecutore dei compiti assegnatigli, va un po’ a convergere con la difesa che farà Eichmann del suo operato nel processo che lo vedrà coinvolto in Israele nel dopoguerra dopo la cattura ad opera del Mossad.

Il pregio del romanzo è dunque proprio quello di mostrare chiaramente il potenziale lato oscuro di ogni essere umano, quello già evidenziato in fondo nella “banalità del male” di Hannah Arendt, ovvero quell'insieme di mancanza di scrupoli, cinismo, arrivismo, servilismo, tatticismo, perbenismo, conformismo, codardia e miopia che, ben più della pazzia, spiega, a posteriori, il coinvolgimento delle persone “normali” nei più efferati fatti storici e che può trasformare e far scivolare ognuno di noi in un obbediente carnefice o almeno, e più banalmente, in un patetico, consapevole e acritico “yes man”.

A questo proposito, tra l’altro e a mio parere, l’Autore compie un mezzo passo falso perché, alla fine, diciamolo, il personaggio di Maximilien finisce per risultare tutt'altro che “banale” e “normale” (almeno secondo i miei canoni!)  e, pertanto, il messaggio: “tutti possiamo trovarci nella situazione di comportarci in modo decisamente riprovevole” rischia di perdersi un po’ a causa di quella che definirei una certa hýbris dell’Autore (anche lui preda delle Erinni?). Egli alterna fasi del romanzo dove descrive in modo mirabile luoghi e fatti reali e/o del protagonista ricostruendoli in modo meraviglioso e storicamente ben documentato, a fasi oniriche e intemperanze di vario tipo, sempre del protagonista, che, dopo un po’, risultano un po’ eccessive e financo francamente noiose.

In altre parole, se l’Autore avesse tagliato qualche centinaio di pagine di deliri vari, questo romanzo non sarebbe stato solo molto bello e illuminante, ma persino e decisamente un capolavoro.  

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